19/08/12

Vincenzo Latronico, GINNASTICA E RIVOLUZIONE


[Seoul 2012. Foto Rb]










Vincenzo Latronico, Ginnaastica e rivoluzione. Milano, Bompiani, 2008

Sul piano dell’intreccio, il romanzo espone le esperienze personali e collettive di un gruppo di giovani di vari paesi, che organizzano a Parigi un’agenzia fotografica e si disperdono alla fine, andando ciascuno per la sua strada. 

La storia è raccontata da un narratore in prima persona, che si alterna alle autobiografie dei vari protagonisti: costoro, come pure la voce in prima persona, in inserti scritti in caratteri diversi da quello della storia principale, si raccontano, integrando la cornice e intrecciando rapporti di interazione, di compartecipazione e sentimentali: il narratore T, profugo assieme a un amico, Nicola, da un “paese in declino” (p. 275), prima verso Milano, poi in Francia; Cas arrivata a Parigi da una buona famiglia di Bordeaux per studiare, ma dedicatasi ad altre attività; Julie sfuggita alla famiglia originaria, che allaccia una storia con T, ma viene poi respinta; Charles spedito nella capitale francese dal padre russo, imprenditore in fallimento costretto a nascondersi; un più sbandato Ramon, coinvolto in episodi di droga; un enigmatico Li, soprannominato SS (che significa Suicidio della Società, p. 111), orfano di genitori appartenenti a una setta avvelenata ritualmente, tutti i componenti, dal capo spirituale. 

In tal modo si ha un mondo corale, fatto di individui con loro specificità. Se la comunità creata dai protagonisti si rappresenta come “famiglia”, non sconfigge però la pulsione verso l’individualismo:

“[...] la nostra famiglia (noi) quella che ci eravamo costruiti finendo tutti, per caso, a Parigi, era un filtro nei confronti della complessità e dei tempi. La nostra famiglia (noi) era il limite massimo all’interno del quale fose possibile un rapproto trasparente e forte con qualcuno, prima che l’indecidibilità dell’universo venisse a immischiarsi, a inquinare ogni legame, ogni intervento. La nostra famiglia non ci liberava dall’individualismo che avevamo ereditato dai tempi come un mantellino strappato: ci riunivamo in individualità egoiste e irriducibili, per sentire intorno a noi il tepore dello scudo dei corpi, per darci forza l’un l’altro, per dipingere la fiducia” (p. 18).

Siamo alla vigilia della manifestazione no global di Genova del 2001, che si presenta come un’aspettativa e come un miraggio: i protagonisti si augurano di parteciparvi e si organizzano per andarci, ma poi nessuno di loro ci sarà. Forse qui una metafora dell’aspirazione verso la “rivoluzione”, inattuata e disattesa.

In effetti, se si guarda alle biografie e alle interazioni di questi ventenni, ci si rende conto che la loro protesta è più bohemienne che politica:

“Eravamo a Parigi, contestavamo, facevamo quella che speravamo diventasse arte e invece era solo informazione (parziale e scadente), festeggiavamo, tentavamo di non accedere alla scatola nera che avevamo in testa (è impossibile, ci dicevamo, è impossibile il linguaggio privato), impersonavamo amori strazianti e sentiti e cercavamo in una manifestazione internazionale la soluzione ai problemi nostri e del mondo (nostri, in verità)” (p. 10).

Animati da buone intenzioni, come dimostrano le fotografie che scattano e l’impegno sociale di varie iniziative cui si dedicano, al contempo non paiono portatori di un’ideologia costruttiva; o per lo meno il progetto di rinnovamento si prospetta con fumosità: “la rivoluzione [...] avrà luogo negli spazi interstiziali della coscienza pubblica, nelle proiezioni, nei miti, e comunque di certo non avrà veramente nulla da spartire con quelle passate, anzi sarà a stento percepibile, riconoscibile, e certo non comprensibile da tutti quelli che l’hanno fatta prima” (p. 226).

Probabilmente, agli occhi di questi giovani, per la protesta genovese e la risposta istituzionale, lo scontro violento, gli abusi di potere, la divisione tra le ali del movimento, la morte di un manifestante, la difficoltà a gestire la situazione da parte dei partecipanti, il 2001 costituì un asse divisorio tra un prima di ideali e un dopo di insensatezza, risultante da alcune affermazioni insite nella cornice, oltre che dalle sezioni intitolate Dalla corrispondenza di Julie, datate al 2005. Come dichiara il narratore fin dalla prima pagina: “allora le nostre azioni non erano ancora inquinate dal dubbio e dalla mancanza di senso” (p. 10). L’attesa, anche per la caratteristica simbolica del primo anno del nuovo millennio, era quella di potersi trovare in una situazione nuova in quel “primo anno di un secolo e di un millennio nuovi, venuti subito dopo il piombo e il conformismo degli scelleratissimi anni novanta” (p. 38). Attesa disillusa dalla realtà.

I giovani del romanzo sono critici tanto del modo di essere borghese quanto del progressismo erede del Sessantotto: così nell’episodio dell’intervista concessa a una giornalista di sinistra, etichettata come in possesso di “convinzioni pauperiste, stereotipate e modaiole” (p. 232). In breve, sono degli insoddisfatti rispetto alla classe sociale di provenienza, che è la classe media per i più e il ceto alto per alcuni. 

Se sul piano programmatico c’è come un vuoto, dunque, su quello esistenziale si manifesta incertezza verso la stabilità. Catturati nella società liquida baumaniana, le loro relazioni amorose durano poco, le dislocazioni geografiche sono frequenti, il radicamento familiare è scarso, le amicizia si formano e si spezzano. A riflesso delle indagini sociologiche del nostro secolo, i lavori che svolgono sono saltuari, poco remunerativi, insicuri. Si direbbe, in fin dei conti, un quadro piuttosto rappresentativo della generazione di cui parla. Mimetico, insomma.

La lingua di Cotroneo, in ogni caso, evita la banalità, si serve di metafore e similitudini nate dal quotidiano ma il più possibile non trite, infine tende, oltre che alla riflessività dei passi sopra citati, anche verso l’arguzia e l’ironia in diversi dialoghi.


[Roberto Bertoni]