25/07/13

Lucetta Frisa, IL RESPIRO DI GENOVA


per Carlo Merello



Saltare su un piede solo lanciando
un sassolino dentro il pampano:
un preciso rettangolo suddiviso
da caselle numerate. Non si doveva sbagliare
mai uscire da quella geometria.
Si tratteneva il fiato.

Cielo magro conteso tra i tetti alti
sghembi e il sole a picco,
odori di mezzogiorno: pesce
dell’Angiolina che ancora strillava senza più voce
 né pesce da vendere e odore
del suo pesce fritto e  minestrone
al pesto dalle case legate dai fili
affettuosi della biancheria e odore
del piscio di tutti i gatti del quartiere
tra cui il Migno, detto il re: piscio diverso
dagli altri come il suo miagolìo.

Ma bastava correre in fondo al vicolo
per respirare
il mare.
Fiato lungo lunghissimo.
Basta un po’di vento che ingoia
tutti i respiri della terra e degli uomini
e ne fa uno solo.

Cosa significava quel disegno per terra
col gesso bianco? Una porta? che per chi vince
- finendo il gioco senza cadere - si spalancherà
nell’ultima casella? e da lì il vincitore
entrerà fiero sulla scena del sottosuolo
tra gli applausi degli dèi inferi?

Se il mare avanzasse
fino alla casa di gesso
naufragherebbe il regolamento
si porterebbe via i numeri
come barche sfondate.

Il suo odore apre i polmoni
più dell’incenso nelle chiese
che apre a chi è in attesa
la Gran Porta celeste.

Il respiro di Genova non è da cartolina
per i turisti delle cose morte.
È ancora qui nell’aria, resiste un poco
nei polmoni sempre più inariditi
dall’impazienza del tempo che marcendo
cambia l’aria, tutta l’aria, insieme a noi.