09/11/16

Helen Hodgman, TASMANIA BLUES


Roma, Socrates, 2016

Esce finalmente in italiano dalla casa editrice Socrates di Roma tradotto da Valentina Rossini Tasmania blues la prima opera scrittrice australiana Helen Hodgman, ma nata in Scozia e trasferitasi appena adolescente alla fine degli anni cinquanta con la famiglia in Tasmania, la grande isola separata dal continente australiano dallo stretto di Bass.

Il romanzo racconta in prima persona la vita quotidiana di una ragazza molto giovane che si ritrova a dover affrontare una maternità avvenuta troppo presto e un ruolo  familiare nel quale non riesce a riconoscersi. Immagini nitide accompagnano le difficoltà della protagonista che si sente estranea a tutto ciò che le capita intorno, non riesce a partecipare alla vita che le si muove davanti agli occhi, ma può soltanto osservarla. L’incipit sembra contenere in sé il nocciolo della vicenda sin dalla prima frase: “Ho osservato tutto fin dall’inizio”. La ragazza abita con il marito e la figlia neonata nell’ultimo bungalow costruito  accanto alla spiaggia e spostando le tapparelle osserva la costruzione di un nuovo bungalow, l’arrivo della vicina di casa, il suo ostinarsi a trasformare in prato un quadrato di aguzzi fili d’erba.

Il distacco con cui viene osservato il mondo circostante, l’incapacità di prendervi parte, di farsi assorbire dalle sensazioni e dalle emozioni, è filtrato attraverso un punto di vista che pur osservando con grande attenzione i dettagli e riuscendo a far vedere al lettore particolari ingranditi che altrimenti non verrebbero nemmeno notati, non riesce a dare colore alle emozioni. L’immagine di una tartaruga marina che si è arenata sulla spiaggia dopo aver deposto dolorosamente le uova sembra racchiudere in sé la condizione psicologica in cui si trova  la protagonista, incapace di immergersi nell’esistenza, di condividere esperienze, di farsi catturare dalla vita, e meno che mai di accettare la maternità. L’istinto materno pare essersi arenato in una dimensione quotidiana dove domina il vuoto significativamente segnato da un orologio a muro fermo sulle tre del pomeriggio. Appena ritornata a casa subito dopo il parto la giovane protagonista non può far altro che spostare la tapparella per mettersi a osservare la vicina.

Anche il paesaggio, la spiaggia accanto alla quale la ragazza vive e che per la sua bellezza assurda potrebbe stare sulla copertina di una brochure turistica, non si lasciano catturare, ma respingono e fanno male. Tutto è filtrato attraverso un’immaturità emotiva che impedisce di vivere, nonostante il desiderio cerchi di rincorrere la vita, di esaurirsi nell’eccesso che non conosce freni né regole morali. La quotidianità è infatti scandita dagli incontri con due amanti che la protagonista  va a trovare immancabilmente il martedì e il giovedì  affidando la bambina alla madre del marito  proprio scappando dalla situazione che si lascia alle spalle. Il vuoto emozionale cui il corpo si ribella cercando di partecipare alla vita, buttandosi a corpo morto nella vita, non riesce però a essere colmato. Proprio in questo spazio prendono forma i fantasmi degli antichi abitanti, gli aborigeni tasmaniani perseguitati e sterminati dai conquistatori bianchi, rivelando l’ombra scura che si accompagna alla abbagliante luminosità dell’isola. Libro duro, bello, che si legge con emozione e meraviglia per le forti immagini e per la scomoda verità con cui fa costantemente confrontare e che ha conservato, nonostante sia stato scritto negli anni settanta, una forza vitale che non si è minimamente esaurita.


[Rossana Dedola]